Calcio espiatorio

In questi giorni di quarantena siamo stati particolarmente feroci sui social. Non abbiamo risparmiato nessuno, dai politici, ai tedeschi, fino ad arrivare ai runner nella costante ricerca di un nemico che sembra caratterizzare la natura dell’uomo.

In mezzo a questo turbine ci è finito ovviamente anche il calcio, colpevole di vari reati fra cui l’essere uno sport inutile in cui girano un mucchio di soldi e in cui i tifosi non capiscono nulla: il nemico perfetto. Anche il calcio e i calciatori, insomma, ci hanno preso un po’ sotto. E se lì per lì non viene neanche da difenderlo, forse perchè sotto sotto anche noi tifosi siamo consci della sua ricchezza, pensandoci bene è il caso di mettere un po’ le cose in chiaro.
Una delle prime accuse ha riguardato l’autonomia del mondo del calcio, in particolare in riferimento alla giornata dell’8 Marzo, giocata quando l’emergenza era esplosa e il mondo dello sport fermo. E’ stata l’ultima giornata di Serie A, quella con l’imbarazzante teatrino di Parma-SPAL dell 12:30.
Quel giorno il calcio fu accusato di essere in sostanza autonomo e più potente del Governo, dal momento che la Serie A scese in campo mentre molti altri sport avevano annullato la giornata. Il ministro in persona Spadafora cercò di fermare la partita della mezza, facendo rientrare le squadre. Alla fine si giocò, ma prima che iniziasse Sassuolo-Brescia lunedì sera, si sapeva già della sospensione del campionato. Sicuramente un tiraemolla imbarazzante in cui i vertici hanno combinato un pasticcio, di cui già parlavamo in questo articolo.

Si può prendere il calcio come capro espiatorio, oppure ammettere che quello fu il giorno del caos. Nella notte del 7, come ben ricorderete, alle 23 uscì e cominciò a circolare su tutti i gruppi WhatsApp la “bozza” per antonomasia, cioè quella del decreto che estendeva la zona rossa alla Lombardia e altre province (fra cui Modena). Fu una serata da ricordare nella storia della Repubblica: la più grande limitazione delle libertà (allora) veniva anticipata sui social, la gente si accalcava in stazione per “rimpatriare” da Milano e i lavoratori erano lasciati in una situazione poco chiara.
Alle 2:30 di notte uscì il decreto ufficiale che (oltre che a consentire il rimpatrio dei fuori sede, non si sa se per volontà reale o per evitare di dover arrestare migliaia di persone) recitava testualmente per lo sport:
“Sono sospesi gli eventi e le competizioni sportive di ogni ordine e disciplina, in luoghi pubblici o privati. Resta consentito lo svolgimento dei predetti eventi e competizioni, nonché delle sedute di allenamento degli atleti professionisti e atleti di categoria assoluta che partecipano ai giochi olimpici o a manifestazioni nazionali o internazionali, all’interno di impianti sportivi utilizzati a porte chiuse, ovvero all’aperto senza la presenza di pubblico. In tutti tali casi, le associazioni e le società sportive, a mezzo del proprio personale medico, sono tenute ad effettuare i controlli idonei a contenere il rischio di diffusione del virus COVID-19 tra gli atleti, i tecnici, i dirigenti e tutti gli accompagnatori che vi partecipano”
In pratica nel decreto ufficiale sembrava essere stata inserita una clausola apposta (siamo al punto 1.d quindi all’inizio) per consentire le gare il giorno dopo, anzi nel giro di 10 ore. La protesta e il teatrino scatenatisi domenica sono probabilmente scene che si sono viste in molte aziende normali, in cui non si era capito come attuare il decreto e in cui comprensibilmente i dipendente si chiedevano se non fosse il caso di stare a casa.
Il problema del calcio era che a differenza nostra i calciatori avrebbero lavorato domenica e non lunedì, e di cose chiare ce ne erano poche. Addirittura lunedì 9 marzo è dovuto uscire un nuovo decreto, modificato per chiarire, in cui il punto 1.d era sostituito da
“Sono sospesi gli eventi e le competizioni sportive di ogni ordine e disciplina, in luoghi pubblici o privati. Gli impianti sportivi sono utilizzabili, a porte chiuse, soltanto per le sedute di allenamento degli atleti, professionisti e non professionisti, riconosciuti di interesse nazionale dal Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) e dalle rispettive federazioni, in vista della loro partecipazione ai giochi olimpici o a manifestazioni nazionali ed internazionali; resta consentito esclusivamente lo svolgimento degli eventi e delle competizioni sportive organizzati da organismi sportivi internazionali, all’interno di impianti sportivi utilizzati a porte chiuse, ovvero all’aperto senza la presenza di pubblico;
Quindi addirittura erano consentiti allenamenti e gare europee, e non per il calcio ma per tutti gli sport. Come sempre. E forse invece che puntare il dito contro il calcio, dovremmo ricordarci il caos di quel weekend e di come, grazie ad una Bozza, nessuno capì che stesse succedendo e cosa fosse legale o meno.
Ma il decreto ci serve per un altro punto: i tamponi.
Fioccano le accuse ai calciatori e alle società sportive per un fatto increscioso: l’aver fatto i tamponi al posto di qualcuno di più importante come i pazienti o i dottori. Queste accuse sono rimbalzate su tutti i social e anche sui quotidiani, prima di finire nero su bianco sul muro del comune di Nembro. Una delle zone della bergamasca più tragicamente colpite.
La rabbia con cui si sono associati politici e calciatori dovrebbe già di per sé far riflettere. A meno che non si capisca in una situazione del genere la differenza di responsabilità che pesano sul sindaco di Bergamo Giorgio Gori e sul capitano dell’Atalanta Papu Gomez.
Andiamo con ordine. Il primo calciatore di Serie A positivo, e quindi di cui sappiamo con certezza sia stato fatto il tampone, è Daniele Rugani della Juve. La società bianconera ha dichiarato che il giocatore ha effettuato il tampone il 10 marzo, ma la sua compagna Michela Persico si è lasciata sfuggire di aver fatto il test l’8 marzo e di aver avuto i risultati il 9. Strano, perchè la notizia della positività è arrivata sui media solo il 12 appunto.
Ad ogni modo sembra possibile che la Juve non abbia voluto ammettere di aver tamponato il difensore l’8, perchè alla sera c’era stata Juve-Inter con Rugani in panchina. E qui si aprono le dietrologie da bar che non ci interessano.
Ci interessa dire una cosa. Qualora Rugani avesse fatto il test domenica 8 marzo, non avrebbe innanzitutto tolto tamponi a nessuno. A quella data in tutto il Piemonte risultavano effettuati 1.700 tamponi di cui 373 positivi. Non si potevano certo paragonare ai numeri che sarebbero seguito di lì a poco. Ma c’è un fatto più importante: Rugani DOVEVA fare il tampone.
Se riprendiamo il DPCM dell’8 marzo, vi era un espresso obbligo delle società ad effettuare i controlli. Rugani, e altri come lui, avrebbero dovuto per forza fare i controlli per lavorare a norma di legge! Non a caso in quella settimana sono seguiti gli esiti di altri calciatori, come il doriano Gabbiadini, che probabilmente sono stati tamponati a seguito del decreto.
Ultima postilla, ricordiamo che in Serie A i giocatori sono seguiti da un’equipe di medici privati e personali che quasi sicuramente non hanno tolto soldi o energia al settore pubblico. Polemica analoga c’è stata con l’NBA in USA, visto che i primi casi della nazione sono stati fra gli sportivi. Il sindaco De Blasio ha rivolto pressochè le stesse accuse ai dirigenti dicendo che erano stati fatti troppi tamponi in NBA mentre la gente con sintomi non riusciva a farne. Riportiamo la replica dei Brooklyn Nets:
“Abbiamo fatto i test grazie a un’azienda privata e ce li siamo pagati personalmente perché non volevamo pesare sul Center for Disease Control and Prevention e sui fondi pubblici. Grazie ai risultati ottenuti siamo riusciti a prendere subito tutte le precauzioni, isolando i giocatori positivi. Se avessimo aspettato i sintomi, molti giocatori avrebbero potuto mettere a rischio le loro famiglie, gli amici e i tifosi. Forse il nostro è un esempio da seguire anche per cercare di evitare la diffusione del virus”
In conclusione a questo punto, forse se le società hanno dovuto fare tamponi e altri lavoratori no, non bisogna puntare il dito contro i calciatori ma capire, ancora una volta, che c’è differenza fra Giorgio Gori e il Papu Gomez.
Arriviamo all’aspetto in cui il qualunquismo sguazza: il calcio ha la grana.
E’ vero, è inutile girarci intorno, l’industria Calcio in Italia è praticamente un settore economico. Stando all’ultimo rapporto FIGC analizzato dal Sole 24 Ore le società di calcio professionistiche fatturano circa 3,4 miliardi di euro. Ma se a queste aggiungiamo anche le altre, arriviamo a 4,5 miliardi. Questo però solo guardando i fatturati, perché se allarghiamo l’orizzonte al volume d’affari (stipendi, merchandise ecc.) che il settore genera, parliamo di 18 (diciotto) miliardi.
Tanti soldi, e tante persone con soldi! In media un calciatore di Seria A guadagna infatti 2 milioni di euro l’anno e siamo tutti d’accordo nel dire che sono un bel po’ di liquido. E per questo suona strano che il calcio chieda la “Cassa Integrazione”, una sussidio che lo stato dà in emergenza.
Forse fa anche più strano, come suggerisce questo post per nulla accusatorio, che di fronte ad un’emergenza nazionale sanitaria ed economica, un mondo di ricchi come il calcio si permetta di chiedere soldi allo stato.
Innanzitutto il fotomontaggio che circola (perchè forse queste persone non volevano essere usate così) collega emotivamente la richiesta del calcio alla situazione dei medici con i lividi da mascherina. Non vedo perchè non dare direttamente la colpa del virus a Rugani a questo punto.
Se siete sorpresi che il calcio chieda aiuto economico vi invito a rileggere poche righe più su: 4,5 miliardi di fatturato diretto e 18 miliardi di giro d’affari complessivo. Il calcio non sono più “ventidue scemi che corrono dietro un pallone” o “stadi pieni di imbecilli che si menano”. E’ un settore economico e come tale va rispettato!
A questi soldi possiamo aggiungere il conto di 40mila dipendenti che si stima lavorino direttamente nel mondo del calcio e se volete possiamo anche sommare 1,4 milioni di tesserati FIGC: tutte persone che lavorano o che vorrebbero lavorare di calcio. Non scordiamoci che per ogni calciatore strapagato di Serie A, ce ne sono mille che non prendono certo i milioni. Per ogni squadra di Serie A che fattura milioni, ci sono mille società locali che fanno i miracoli per pagare l’iscrizione al campionato e qualche stipendio ai giocatori più importanti.
Lo stipendio tanto criticato di 30 milioni di Cristiano Ronaldo è la punta di un iceberg di giocatori professionisti o semiprofessionisti oggi impossibilitati a lavorare e quindi a percepire uno stipendio proprio come noi, anzi forse in realtà economiche più fragili. Peraltro i numeri contano solo nel calcio, visto che ci sforziamo di non vedere gli stipendi di altri sport (ad esempio il ferrarista Vettel che prende la stessa somma di CR7 ma a differenza del portoghese non ha feeling con la vittoria).
Il calcio può chiedere quei soldi anche perchè tutti gli anni versa un introito di tasse allo stato stimato in un miliardo di euro. Può e deve chiederli perchè è un mondo di professionisti sempre nascosti ma non per questo immeritevoli: fotografi, cameramen, fisioterapisti, massaggiatori, magazzinieri, burocrati, tecnici, social manager fino ad arrivare a noi…i giornalisti. Quando si è fermato il carrozzone, si è fermato tutto, non solo lo spettacolo.
Prima di pensare a Juve e Inter, pensiamo a chi di calcio ci vive sperando che la squadra per cui lavora resti in serie A o chi ci campa mensilmente con già l’ansia di essere disoccupato a 40 anni. Non certo santi, ma comunque persone.
Ultimo ma non ultimo, il messaggio della “bomba biologica”.

Sono emersi tanti racconti dalla provincia di Bergamo, la provincia italiana al momento più colpita dal coronavirus che annovera una stima di 5.000 vittime in queste settimane. Uno ha fatto particolarmente rumore, ovvero un’intervista al primario del Giovanni XXIII di Bergamo, Fabiano Di Marco, che dà la sua opinione in merito alla grande violenza con cui l’epidemia ha colpito la provincia.
“Ne sento tante, dico la mia” – dice pienamente consapevole quindi di azzardare un’ipotesi – “Diciannove febbraio, 40 mila bergamaschi a San Siro per Atalanta-Valencia. In pullman, auto, treno. Una bomba biologica, purtroppo.” Parole pesanti che hanno avuto eco anche a Roma, ripetute dal dott.Francesco Le Foche dell’Umberto I, anche se qui a dire il vero le parole sembrano un po’imboccate.
Una risonanza anche all’estero, ovviamente in Spagna, dove il Valencia ha giustamente chiesto spiegazioni visto il picco di casi all’interno del loro staff dopo il match contro la Dea. Per questo motivo ha dovuto chiarire il sindaco bergamasco (che abbiamo già tirato in ballo negli esempi e che ora citiamo) Giorgio Gori. Di fronte alle tante persone che, a sproposito, hanno continuato a parlare di questa partita come addirittura la “partita zero”, Gori ha chiarito su Facebook interrogato da Marca (in sostanza la Gazzetta dello Sport spagnola):
“Nessuno sapeva che il virus stesse già circolando tra noi. Molti hanno guardato la partita in gruppo e ci sono stati molti contatti quella notte. Il virus è stato trasmesso dall’uno all’altro”.
Questo perchè confrontando banalmente le date basta accorgersi che la partita era il 19 e il primo caso positivo in Italia è stato trovato nel lodigiano il 23 febbraio. Assolutamente possibile che la partita fosse stata causa, ma solo con il senno di poi. Il sindaco infatti chiarisce:
“La partita non è stata la sola causa però, perché la scintilla vera e propria c’è stata nell’ospedale di Alzano Lombardo, con un paziente con polmonite non riconosciuta e che ha infettato pazienti, medici e infermieri. Questo è stato il fulcro dell’epidemia”.
Dalle ultime ricostruzioni giornalistiche (qui vi linkiamo al momento quella che ci sembra la migliore se foste interessati) è ormai assodato che quella partita non c’entri nulla, ma che la causa purtroppo sia da vedere nella gestione e nella sfortuna dell’ospedale di Alzano nella Val Seriana. Per quanto la logica possa certamente portarla ad essere pensata, la “partita zero” o la bomba biologica non ha riscontri nella realtà.
Abbiamo concluso. Uno sproloquio forse un po’ lungo ma il cui messaggio vuole essere chiaro: usciamo dall’idea del calcio di una volta, quello degli ignoranti strapagati in discoteca con le veline e dei presidenti spendaccioni. Il calcio oggi è una realtà economica seria, che da lavoro e da mangiare a centinaia di migliaia di italiani, che genera impiego, rivaluta le città e il turismo, rende bene gli investimenti e paga le tasse.
E’un mondo sicuramente ancora pieno di gente disonesta, arrivista, avida e attaccata al denaro e questa emergenza lo ha dimostrato certamente. Ma è anche fatto, nella maggior parte, di persone che lavorano come tutti e con stipendi più che normali, e che non meritano di vedere screditato dal volere popolare questo ambiente dal momento che in caso di mancanza di aiuti economici proprio loro saranno i più esposti.
Smettiamola, in pratica e davvero in conclusione, di cercare un nemico e di pensare allo Stato come un genitore del cui amore essere invidiosi e gelosi. Come se non ci fossero soldi e risorse da sbloccare, come se le mascherine comprate per le farmacie escludessero quelle per i supermercati. Non è così. Qualcuno forse vuole farlo credere perchè gli conviene.